Per comprendere un attacco di panico è indispensabile riallacciarsi al suo parente più prossimo, la paura, un’emozione che ci avverte quando siamo di fronte a pericoli reali, generando risposte adeguate a proteggerci e mantenerci in salute.
La paura, pur provocando sensazioni spiacevoli è un alleato importante, una spinta a mobilitarci e seguire le reazioni difensive istintuali; queste reazioni sono decisioni prese rapidamente e intuitivamente dalla mente che, per essere appropriate alla natura del pericolo, possono risultare molto diverse fra loro: contrattacco, razionalizzazione, immobilità, fuga…
E’ importante non confondere questo sentimento primordiale forte e chiaro che fa parte dell’istinto di sopravvivenza con le innumerevoli paure infondate, fobie e fantasie catastrofiche in cui intrappoliamo noi stessi nella vita di tutti i giorni.
Questi stati fobici, ansiosi e angosciosi, nella loro forma acuta diventano i cosiddetti “attacchi di panico”, i quali non partendo da una realtà di pericolo concreto sono da considerarsi metafore del nostro mondo interno, espressioni di un disagio di vivere, nonostante le manifestazioni sul piano fisiologico e psichico siano identiche a quelle della paura: senso di allarme, palpitazioni, irrequietezza, rigidità muscolare, sensazione di non respirare, bocca secca, nodo alla gola, gambe molli, svenimento, stordimento, tremore, vertigini, appannamento della vista, dolore al petto, nausea, perdita di controllo, paura di morire, di impazzire, di non essere più gli stessi…
Chi ha fatto esperienza di un attacco di panico sa che è un evento angosciante, improvviso e inaspettato; il timore che si ripresenti diviene in genere un pensiero assillante da cui nasce la paura di avere paura.
Il fatto di non trovare una ragione plausibile all’instaurarsi di questo disagio fa immaginare che il suo superamento sia al di là delle proprie possibilità da cui ha inizio una strategia difensiva paradossale: si sfuggono le situazioni in cui gli attacchi di panico sono avvenuti considerandoli pericolosi… gli spazi aperti, gli spazi chiusi, le piazze, la folla, il traffico, il supermercato, le situazioni d’esame, l’ospedale, l’aereo, il treno, per non parlare di ascensori, gallerie e ogni luogo in cui ci si sente “costretti”.
Inizia un circolo vizioso in cui ci si auto-convince ad isolarsi, a vivere confinati, ad uscire di casa il meno possibile a meno di non essere affiancati; si limitano le proprie attività e relazioni, pervenendo ad una mancanza di autonomia eccessiva accompagnata dalla dipendenza dai farmaci. Solo quando ci si accorge che il regime di auto-limitazione e restrizione della libertà non aiuta a star meglio, anzi predispone alla depressione e alla frustrazione, si giunge alla logica conclusione che l’unico modo di uscirne è la comprensione del sintomo e non l’evitamento.
Come comprendere il sintomo? Il denominatore comune è l’incapacità momentanea di reagire alle pressioni esterne, di dare voce alla creatività, di usare il proprio potere per prendere decisioni autonome con la conseguente sensazione di non incidere in un qualsiasi ambito della vita: lavorativa, affettiva, relazionale…
Alla base di questi comportamenti vi è una rinuncia rabbiosa, una mancanza di coraggio, una sopravvalutazione delle proprie capacità di resistenza fisica, il tutto per mantenere lo “status quo” per non affrontare se stessi, i propri bisogni di cambiamento e realizzazione necessari al benessere.
Piuttosto di trovare la forza per trasformare le situazione secondo i propri desideri, si tende a privilegiare l’atteggiamento passivo e dipendente, si preferisce minimizzare i messaggi corporei sino a quando il corpo non comincia ad urlare attraverso l’attacco di panico o altri sintomi collaterali che assumono punte estreme tali da non poter rimanere inascoltati. Con l’attacco di panico si attua l’aggressività passiva, una sfida disarmante, un braccio di ferro fra se stessi e il mondo da cui si esce simbolicamente sempre vincenti. Che senso ha questa vittoria? Un risarcimento immaginario per i danni subiti e un momentaneo potere sugli altri naturalmente distruttivo per tutti.
E’ un problema di dipendenza, di de-responsabilizzazione, di potere? Vero è che non si può vivere senza potere alcuno e senza una vita che abbia significato per se stessi. Le capacità di risposta dell’organismo allo stress sono immense, ma si riducono qualora le situazioni persistano troppo a lungo. Chiedere un aiuto terapeutico significa accettare la momentanea incapacità di gratificarsi e proteggersi nelle diverse situazioni.
tratto da: www.gestaltbologna.it